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hooverine
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Inserito il - 24/04/2004 : 12:15:13
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Il maestro Kara condensò l'essenza baol nel baol wu shi, arte marziale del baol codardo o della dignità dal fuggiasco. Egli inventò sette stili:
Lo stile della tartaruga (tappati al chiuso e non venir più fuori)
Lo stile del ghepardo (scappa su un albero o su un punto elevato)
Lo stile del granchio (pedala all'indietro)
Lo stile dello scarafaggio (nasconditi sotto qualcosa)
Lo stile della mosca (fingiti morto)
Lo stile della lepre (scappa più veloce che puoi)
Lo stile dell'elefantino (chiama in aiuto degli amici molto grossi)
Si batté battendosela duecentododici volte e non fu mai raggiunto né colpito. La duecentotredicesima affrontò numerosi nemici e ne fece polpette. Perché stavolta non sei scappato? gli chiesero.
- Non mi sentivo bene - rispose.
Stefano Benni, "Baol"
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Biuso
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Inserito il - 24/04/2004 : 20:40:24
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Interessante. Chiedo a hooverine e a tutti gli altri se qualcuna di tali regole (per quanto ironiche) sia applicabile anche nel caso si debba fuggire da un innamoramento senza speranza, visto che Stendhal consiglia proprio -in questo caso- come unica soluzione il trasferirsi in una città che disti qualche centinaio di chilometri dalla donna -o dall'uomo- da cui si fugge...
agb È una vela la mia mente, prua verso l'altra gente, vento, magica corrente... (Battisti-Mogol) |
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hooverine
1° Livello

Regione: Italia
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Inserito il - 26/04/2004 : 12:07:46
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risponderei, ma ho bisogno di un sigaretta, e non ne ho, e mi scoccia vestirmi e uscire. attuo lo stile del bradipo per sfuggire ai miei vizi. per le donne consiglio lo stile della mantide religiosa per le vendette d'amore. per gli esami, invece, domani e venerdì prossimo attuerò lo stile della faccia di c***, e non se ne parli più.
Edited by - hooverine on 26/04/2004 12:08:33 |
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Cateno
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Inserito il - 26/04/2004 : 17:09:48
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Mi dispiace togliere speranze a chi tenta una fuga amorosa, ma penso sia vero quanto afferma Petrarca, il mio Petrarchino!, nel famoso sonetto XXXV: "Ma pur sì aspre vie nè sì selvagge cercar non so ch'amor non venga sempre ragionando con meco et io con lui."
Mi sa che non ci resta altro da fare, nell'innamoramento non corrisposto,che crogiolarsi nel dolce affanno e tentare di renderlo o creativo o stimolante sotto qualche altro aspetto. In questo sono stilnovista: l'amore ingentilisce. Cito ancora Petrarca (RVf LXXI): "onde s'alcun ben frutto nasce di me, da voi vien prima il seme; io per me son quasi un terreno asciutto, colto da voi, e 'l pregio è vostro in tutto."
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Biuso
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Inserito il - 27/04/2004 : 15:00:00
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Non mi toccate Spinoza ché mordo! :-) La definizione che l'Etica offre dell’Amore non mi sembra poi così criptica, anzi. È la constatazione che amiamo ciò che amiamo perché lo associamo sempre a una intensificazione del corpo, delle azioni, del tempo, della mente, di tutto il nostro essere, insomma. E per questo possiamo amare allo stesso modo un luogo, un ricordo, una persona, un libro, un progetto… (con buona pace di Descartes e della sua gerarchia del sentimento amoroso). E l’Odio è –logicamente- una tristezza associata all’idea di qualcosa. Forse quindi un modo non per odiare (sentimento naturale ma quasi sempre sterile) ma per liberarsi dell’oggetto amato che causa tristezza (un contraddizione in termini e quindi uno dei momenti più atroci della vita…) è cominciare ad associarlo a qualcosa che detestiamo.
Più in generale, ho imparato a rispettare talmente il sentimento amoroso (in particolare verso un uomo o una donna) da accettarne tutte le forme, ogni manifestazione, qualunque modalità: da quelle più fisiche alle espressioni più immateriali (comprese quelle stilnovistiche, sulle quali gravano comunque molti pregiudizi), dal Simposio platonico al Marchese de Sade (passando per Proust e Lawrence…). Amare significa essere immersi nella passione e le passioni costituiscono non solo una parte essenziale dell’umano ma anche un emblema della nostra complessità. Esse, infatti, possono nello stesso momento darci la più grande gioia e il più desolato abbandono. Uno dei testi più profondi che siano mai stati scritti sull'argomento sono i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes (Einaudi). Lo consiglio a tutti. Leggetelo, me ne sarete grati!
agb È una vela la mia mente, prua verso l'altra gente, vento, magica corrente... (Battisti-Mogol)
Edited by - biuso on 27/04/2004 15:12:45 |
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Biuso
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Inserito il - 27/04/2004 : 20:51:28
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quote:
Caspita, prof… potrei riuscire a rispettare anche queste forme, queste modalità di amore, certo, ma soltanto se pensiamo al concetto astratto di Amore: ma qui si parla di amore per una persona! Una persona, quell’Essere, quel corpo da sentire – vedere toccare udire annusare gustare!
E a mia mu rici?! A me che –come ben sapete- son d’accordo con il Nietzsche che afferma d’essere corpo in tutto e per tutto? Solo che la corporeità è qualcosa di assai più complesso, ricco, profondo, del puro organico. Corporeità è l’ampliarsi dello sguardo a tutto l’orizzonte fisico e mnemonico; è attingere da se stessi il significato degli oggetti, degli attimi e dell’esserci; è fare del proprio corpo isotropo [dal quale si diparte la volontà e in cui converge ogni avvenimento] il centro, il nessun luogo, tutti i luoghi. E allora ci sono davvero tanti modi per toccare, vedere, udire, gustare, annusare una persona… Scoprire questi modi è, sostanzialmente, amare.
agb È una vela la mia mente, prua verso l'altra gente, vento, magica corrente... (Battisti-Mogol) |
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Cateno
2° Livello
 
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Inserito il - 28/04/2004 : 11:14:46
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Erudirvi sul mio Petrarchino… Mamma che compito! Non ho l’elevata pretesa di riuscire in tanto, ma sicuramente posso aggiungere qualcosa poiché ho divorato il Canzoniere più e più volte fino a diventare, in un periodo non molto remoto, una costante citazione petrarchiana; l’avevo, come dire, incorporato! Tant’è che m’ero fissato a scrivere sonetti raggiungendo in alcuni un similarità incredibile con il mio Modello: ad esempio questa prima terzina d’un mio sonetto: “Ed ei son languidi ed io sono stanco e quel bel sole m’ha ridotto in cenere sì che vo’ in vista scolorito e bianco.” Detti questo, veniamo a noi. Petrarca non è stilnovista e questo credo lo sappiano tutti. Conserva certo elementi, a volte stilistici a volte “ideologici”, di quei poeti, ma ricordiamo che già c’era stato quel Dante che con la Vita Nuova lancia lo sguardo oltre i suoi maestri e amici. (Non tralasciamo però che il poetare stilnovistico si svolgeva secondo “canoni definiti”, secondo un certo modo di far poesia. Non tralasciamo che erano sempre uomini a scrivere, con le loro passione, con i loro corpi, con il loro amore. Non tralasciamo che il corpo, anche se sublimato o idealizzato, è partecipe e forse punto di partenza del sentimento amoroso. Ricordate il famoso incipit: “Voi che per l’occhi mi passaste il core”.) L’amore di Petrarca non è amore solo ideale o platonico, come si usa dire. Forse non tutti sanno o si sono accorti che nel Canzoniere è anche il corpo ad assumere una posizione di rilievo. Sia il corpo dell’amata, sia il corpo del poeta. Alcuni esempi riguardanti il poeta: nel sonetto XV è tutto il corpo che partecipa e subisce della pena amorosa, qualche stralcio: “Io mi rivolgo indietro a ciascun passo col corpo stanco ch’a gran pena porto […] Poi ripensando al dolce ben ch’io lasso, al camin lungo et al mio viver corto, fermo le piante sbigottito e smorto et gli occhi in terra lagrimando abbasso.”; il sonetto XVI è tutta una similitudine col famoso (ripreso anche da Leopardi nel “Canto notturno”) “vecchierel canuto e bianco […] rotto dagli anni e dal cammino stanco”; ancora nel magnifica sonetto XXXV è il corpo che esterna cosa c’è nell’animo del poeta: “perché ne gli atti d’allegrezza spenti/ di fuor si legge com’io dentro avampi”. Per abbreviare, giungiamo al corpo di Laura: il sonetto XVII è una sorta di resoconto di quello che il corpo dell’amata, la sua assenza ed i suoi gesti producono nell’amante; il famoso sonetto XC “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi” è un narrare lo sfiorire della donna (questo davvero estraneo agli stilnovisti), della corporeità della donna anche “piaga per allentar d’arco non sana”; canzone CXXVI, la forse ancor più famosa “Chiare, fresche, et dolci acque”, dove la penultima strofe è uno straordinario ed incantevole confondersi e fondersi della colorita bellezza naturale e della soave bellezza anche fisica della donna; per concludere in fretta, poiché voglio parlare anche d’un altro poeta, lo straziante sonetto CCLXVII, dove viene disperatamente annunciata la morte di Laura ancora riferendosi alla fisicità: “Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo, oimè il leggiadro portamento altero! […] Et oimè il dolce riso onde uscio ‘l dardo di che morte, altro ben mai non ispero!”
Bene, credo sia sufficiente. L’altro poeta di cui voglio parlare è Joë Bousquet (1897-1950). Forse non tutti lo conoscono. In poche parole, è un poeta francese che, dopo aver sfiorato la morte più volte già nell’infanzia, per sfuggire a un amore infelice si arruola durante il primo conflitto mondiale ed il 27 maggio 1918 viene ferito da un colpo che gli spezza la colonna vertebrale e lo costringe a letto ed al buio per il resto della sua vita. V’è un’opera, il “Quaderno nero”, sorta di diario erotico, di rivincita sulla paralisi ma anche di tortura masochistica per l’evidente impossibilità di sconfiggere questo stato di morte viva, ebbene è una specie di tema e variazioni sul rapporto amoroso principalmente sadomasochista senza però, al contrario di Sade, rinunciare ad una sincera tenerezza ed un affetto da innamorato per la prima volta. Cito quest’opera perché, significativamente per il nostro tema, la prima parte si chiama “Poesia del corpo nell’amore” e poi perché l’amore di Bousquet passa inevitabilmente dal corpo e in un certo senso giunge al di là, a cogliere una strana dimensione che poi non è altro che la profondità mentale resa possibile dalla penetrazione dei nostri stessi corpi. L’incipit è bello d’un bellezza che raramente ho trovato: “Adoravo quella ragazza. Il volto era la coscienza del suo sguardo. S’alzava in volo nei suoi tratti gettandomi nell’ombra che si diffondeva dietro di lui. Non so dirlo più chiaramente.” E leggete qua: “Sollevato al disopra del sedere, il vestitino incorniciava come un fogliame quel tenero frutto di luce e d’amore. Sottovoce, attraverso lo spessore dei cuscini, lei pronunciava parole d’amore e dovetti chinarmi per coglierle.” Vi sono momenti di intensa e quasi magica poesia, momenti d’una carnalità morbosa ma sempre luminosa, momenti di tristezza, di consapevolezza della propria impossibilità di vivere. Il corpo è sempre sospeso tra luce e profondità di sentimento. è il corpo il vero protagonista del libro e ciò dovrebbe essere d’insegnamento per noi che possiamo viverlo. E questo si potrebbe anche dire a chi preferisce, come si diceva, gli amore per corrispondenza. Vabbe’, stavolta sono stato lungo davvero. Spero di non essere stato anche inopportuno, ma rileggendo mi pare di no! Vi consiglio il libro di Bousquet, se volete ve lo presto. A presto! (In poesia sarebbe stata una rima equivoca!)
P.s. “Chiodo scaccia chiodo”, si diceva. è vero. Ma tre chiodi fanno una croce!
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