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venerdì 29 marzo 2024 ore 09:56:51
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 Sapzio su Dante
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Cateno
2° Livello

Città: Regalbuto


169 Messaggi

Inserito il - 14/05/2005 : 11:05:30  Mostra Profilo Invia a Cateno un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Tra i tanti spunti che la Lectio del prof Raciti ci ha regalato voglio coglierne uno datomi da un argomento appena sfiorato e, tra l’altro, dal prof Biuso: Dante Alighieri. M’è sembrato che nel nostro forum manchi uno spazio dedicato al nostro sommo poeta e perciò questo mio intervento vuole essere uno sprone per interventi su Dante, foss’anche solo per riportarne versi o passi che piacciono particolarmente a qualcuno.
Per chi non lo ricorda o per chi quel giorno non c’era, si è parlato di Dante perché il mirabile discorso è caduto su Dioniso e quindi su Apollo e sul mito dello scorticamento di Marsia da parte di quest’ultimo. Dante ne parla nel primo canto del Paradiso, nell’invocazione ad Apollo dicendo: “Infino a qui l’un giogo di Parnaso [sede delle Muse]/ assai mi fu; ma or con amendue/ m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso” (vv. 16-18). Dunque si comincia all’insegna di Apollo, protettore della poesia, dispensatore di alloro e dio della luce, più che legittimo, dunque, poiché, come ha ricordato il prof Biuso, il Paradiso ha per confine luce e amore. Ho deciso di iniziare le spero fertili e numerose discussioni dantesche partendo proprio dalla fine cioè dal Paradiso e per di più, come seguirà, dall’ultimo canto. Tra le tre cantiche decisamente preferisco quest’ultima, questa lieta festa di luci e colori, questi versi che hanno come leit-motiv l’amore e il movimento provocato da questo amore (“La gloria di colui che tutto move”: I, 1, cioè il primo verso della cantica; “L’amor che move il sole e l’altre stelle”: XXXIII, 145, cioè l’ultimo verso della cantica e del poema). Il Paradiso di Dante rappresenta il culmine della perfezione delle terzine dantesche e l’estrema arditezza metaforica che tuttavia non perde mai nulla in perfezione stilistica e vigore filosofico, oltre che poetico. Due esempi su tutti: per quanto riguarda la perfezione stilistica e poetica, pur nella semplicità stilnovistica bastino le due terzine del canto XV, versi 31-36: “Così quel lume [Cacciaguida]: ond’io m’attesi a lui;/ poscia rivolsi a la mia donna il viso,/ e quinci e quindi stupefatto fui;/ ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso/ tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo/ de la mia gloria e del mio paradiso”; per la capacità di piegare il verso (o lasciarsi piegare dal verso) in direzioni di vivide e reali immagini, mai in brame virtuosistiche ma sempre in maniera stupefacentemente esplicativa, canto III, vv. 10-18: “Quali per vetri trasparenti e tersi,/ o ver per acque nitide e tranquille,/ non sì profonde che i fondi sien persi,/ tornan d’i nostri visi le postille/ debili sì, che perla in bianca fronte/ non vien men forte a le nostre pupille;/ tali vid’io più facce a parlar pronte;/ per ch’io dentro a l’error contrario corsi/ a quel [di Narciso] ch’accese amor tra l’omo e ‘l fonte”.
Ma veniamo a noi, cioè all’ultimo canto. Scusate, questo intervento sarà forse un po’ lunghetto, ma per Dante un piccolo sforzo si può fare. O no? In fondo egli ne ha fatti tanti per regalarci uno dei doni più magnifici che la mente umana abbia mai potuto ambire e produrre. Cerchiamo di considerare questo intervento e gli altri che, spero, seguiranno come piccoli ringraziamenti a Dante. Dunque, l’ultimo canto. Non mi stupisce che Benigni (all’apice della popolarità; adesso credo che non potrebbe più farlo) abbia scelto proprio questi versi da leggere e commentare in televisione. Sono rime che se colte e sapute spiegare e far comprendere sarebbero capaci di inchiodare all’ascolto anche, per esempio, gente la quale il programma più aulico che di solito guarda è il processo del lunedì. Certo, lo guardavano perché era Benigni, ma i versi di Dante esercitano una strana attrazione e vi confesso che se m’avessero indottrinato il cristianesimo leggendomi Dante sarei sicuramente venuto su credente per due motivi: uno è la paura che avrei avuto dell’Inferno e l’altro è perché avrei finalmente compreso la Trinità ed avrei “visto” Dio.
Procediamo con ordine, non divaghiamo. Il climax ascendente che è tutta la preghiera di Bernardo a Maria è un portento poetico degno, per la costruzione, per l’architettura, dei più capaci romanzieri di tutti i tempi. È un crescendo che, dalle pacate ed efficacissime antitesi al limite dell’ossimoro dei primi versi, passa per la lode piena e di altissimo effetto dei versi 19-21: “In te misericordia, in te pietate,/ in te magnificenza, in te s’aduna/ quantunque in creatura è di bontate.”, per giungere alla lieta festa (ripeto i termini apposta) della terzina in cui è descritta la preghiera collettiva di Beatrice e dei beati (vv. 37-39): “Vinca tua guardia i movimenti umani:/ vedi Beatrice con quanti beati/ per li miei prieghi ti chiudon le mani!”. Meraviglioso! Maria, dall’eterna sua benevolenza di madre, non proferisce verbo, ma i suoi occhi, quegli “occhi da Dio diletti e venerati”, mostrano tutto l’amore, tutta la magnificenza di uno sguardo che fa tacere tutti. Da questo punto in poi non parla più nessuno. Tutti accennano, sorridono, dove la parola non ha luogo ecco che subentra il gesto. Dante vede Dio, anche se non può raccontarlo poiché “la memoria cede a tanto oltraggio”; vede un volume dov’è legato con amore “ciò che per l’universo si squaderna”. Ora, l’universo è concepibile solo come una unità, unità che purtroppo e per fortuna, aggiungo io, si squaderna, si frantuma, si sfoglia e sfalda qui sulla terra di tutti i giorni. Ma proseguiamo con Dante. Ed ecco, dopo qualche terzina, l’immagine della trinità, ai vv. 115-120: “Ne la profonda e chiara sussistenza/ de l’alto lume parvemi tre giri/ di tre colori e d’una contenenza;/ e l’un da l’altro come iri da iri/ parea reflesso, e ‘l terzo parea foco/ che quinci e quindi igulamente si spiri”. Dante è al limite del dicibile, dopo aver visto il cerchio che presumibilmente è il Figlio, Gesù, il poeta è come un “geomètra che tutto s’affige/ a misurar lo cerchio” ed infine “A l’alta fantasia qui mancò possa;/ ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa,/ l’amor che move il sole e l’altre stelle.” Così si conclude il viaggio, così si conclude l’avventura di salvezza del poeta, paradigmatica del genere umano. Certo, cose da dire ce ne sarebbero tante, si potrebbero scrivere intere biblioteche già solo su quest’ultimo canto. Figuriamoci sull’intero poema e su tutti gli scritti di Dante! Resto però convinto d’una cosa, una cosa che avviene sempre, nell’ammirare un capolavoro, come la Divina Commedia o, che so, il Requiem di Mozart o anche il viso della persona amata, una cosa suggeritaci dallo stesso Dante e che trova, tra le altre, una formulazione perfetta dettataci già nel primo Canto del paradiso nei versi 70-71: “Trasumanar significar per verba/ non si poria.”
A presto!


L'esistenza è un episodio del nulla (Schopenhauer)

Biuso
Amministratore

Città: Catania/Milano


2900 Messaggi

Inserito il - 15/05/2005 : 15:32:09  Mostra Profilo  Visita l'Homepage di Biuso Invia a Biuso un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Davvero interessanti queste riflessioni di Cateno e bella la sua proposta di inserire o commentare qui qualche verso dantesco (Spero che serva anche a rendere un poco più interattivo il forum…quindi faccio mio l’invito).

Certo, è difficile scegliere dall’oceano della Commedia qualche onda più potente delle altre. Comunque, fra i versi sui quali ho più meditato ci sono i seguenti, dal canto XXXIII del Paradiso, vv. 64-66.

Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla


È un modo mirabile di esprimere ciò che Wittgenstein chiamava il mistico, ciò che si sa e si prova ma non si può dire. Dante cerca di mantenere nella memoria e ricreare nelle parole la visione del divino ma quanto stava per dire e per pensare si scioglie nella mente con la stessa ineluttabilità della neve al sole, si disperde nello spazio del corpo come le sentenze della Sibilla scritte sulle foglie.

Più avanti, l’esperienza è ribadita con altri versi. Mentre stava proprio per contemplare la Trinità e il suo enigma…

Un punto solo m'è maggior letargo
che venticinque secoli a la 'mpresa
che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo


Il Tempo sembra dilatarsi come se a ogni istante corrispondessero i millenni che ci separano da quando per la prima volta Nettuno vide una nave solcare il suo elemento –la nave degli Argonauti diretti verso la Colchide. Sono versi in cui il mito, la memoria e il tempo trapassano in una dimensione favolosa.

Nel canto I del Purgatorio, infine, il verso 13 è uno dei più perfetti endecasillabi della poesia italiana:

Dolce color d'orïental zaffiro

Spero anch’io che altri continuino.

agb
Sono figlio della Terra e del Cielo stellato
(Lamina orfica di Hipponion)
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Cateno
2° Livello

Città: Regalbuto


169 Messaggi

Inserito il - 20/06/2005 : 16:07:53  Mostra Profilo Invia a Cateno un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Ho riflettuto ancora su Dante e, benché le discussioni metafisiche nei termini in cui le ho poste più sotto potranno sembrare poco ortodosse in una discussione dantesca, ho deciso di concentrarmi sul "viaggio" del poeta nei modi che seguiranno.

Il viaggio dantesco rappresenta il culmine, la vetta di ogni possibile tragitto umano in cui è compreso un “destino”, senza voler attribuire a questo termine, uscendo dall’ambito strettamente dantesco, un significato esclusivamente cristiano, ma, al contrario, allargando il “destino” a ciò che racchiude una scoperta di “senso”, una creazione di se stessi, elevandosi a criterio per il genere umano, giungendo a esplorare il senso dell’essere: è questa la profonda filosoficità della Commedia. Se la domanda fondamentale della metafisica è: perché vi è, in generale, l’essere e non il nulla? , domanda che equivale a chiedere il senso dell’essere, allora la Divina Commedia si presenta come uno dei libri metafisici per eccellenza, o, meglio, il libro metafisico su cui poggia poeticamente la fede cristiana . Heidegger ha chiarito come L’Esserci, l’ente che noi stessi sempre siamo, l’uomo, rappresenti una via d’accesso privilegiata alla comprensione del senso dell’essere ed il viaggio individuale di Dante diviene paradigmatico (con le sue afflizioni e le sue gioie, con le spiegazioni teologiche e cosmologiche della “Fattura” e del “Fattore” ) dell’intera umanità svelando per questa un “destino” di salvezza o dannazione, “destino” che rientra nel disegno più ampio di Dio, di quell’“Amor che move il sole e l’altre stelle” . E se Dante indaga e svela, come dicevo, il creato ed il creatore, allora l’Essere dantesco non può fare a meno di identificarsi con il Movimento e con il Motore Immobile di questo Movimento; ebbene, tutto ciò può essere unificato in una parola: Amore. L’essere è Amore: è l’Amore di Dio che muove tutto ed è anche il movimento del creato (dai corpi, alle anime, ai cieli) che compie il suo “destino” a seconda dell’Amore che nutre nei confronti di Dio. Ricapitolando: per Dante, l’Essere è il tutto tra il Movimento ed il Motore immobile, questo tutto è l’Amore e da ciò derivano importanti conseguenze. Se è vero quanto fino a qui ho sostenuto, allora il “destino” di Dante non poteva che compiersi con un Movimento, con un viaggio; ecco svelato il significato del viaggio. Inoltre, è l’Amore che permette il viaggio di Dante e dicendo questo mi ricollego alla tematica che più direttamente voglio affrontare, cioè tratterò del senso del viaggio dantesco in rapporto a ciò che ne viene detto nel Paradiso. Fin dall’inizio del Poema, Dante è dubbioso circa il perchè del suo viaggio. Nel II canto dell’Inferno (il primo vero e proprio, poiché il precedente fa da introduzione generale) Dante esprime le sue titubanze circa il motivo del suo viaggio a Virgilio (vv. 31-33): “Ma io, perché venirvi? o chi ‘l concede?/ Io non Enea, io non Paulo sono ;/ me degno a ciò né io né altri crede.” Ebbene, già dal primo effettivo canto del Poema entra in scena il Paradiso: il viaggio è voluto da tre donne (Maria, Lucia, Beatrice) paradisiache. Ecco la centralità del Paradiso: il Paradiso è la meta ultima del viaggio ed al contempo è ciò che rende possibile e ciò che causa il viaggio. Tra travagli vari, tra immagini di atroci sofferenze e purificazioni lievi ed efficaci (tutte cose sulle quali non mi soffermo), Dante, passando per l’Inferno ed il Purgatorio, giunge alfine in Paradiso. Ecco che s’in dall’inizio, nei primi tre versi del primo canto di questa cantica, si chiarisce cos’è dio e cosa avviene tramite lui: “La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende/ in una parte più e meno altrove.” Ritornerò sul fatto che emerge sin da questo primo canto e cioè sul mostrare di Dante che a volte le parole non bastano e in più parti, specialmente nell’ultimo canto, egli lascerà intuire come dove non giungano le parole subentri con efficacia il gesto, il movimento del corpo. Per adesso, tralasciando non definitivamente quanto appena accennato, mi occuperò della giustificazione e del significato del viaggio dantesco. Il sommo poeta, pur spiegando a più riprese nelle diverse cantiche il perché del viaggio, ne dà un piena, chiara e profonda spiegazione nel canto XVII del Paradiso. Dopo che è avvenuto l’incontro nel XV canto col trisavolo Cacciaguida , costui nel XVII gli svela i futuri affanni dell’esilio mentre il timore di Dante riguardo a ciò che dovrà dire al termine del viaggio è espresso ai versi 115-120: “...s’io ridico [quello che ho visto nel mio viaggio ultraterreno],/ a molti fia sapor di forte agrume; e s’io al vero son timido amico/ temo di perder viver tra coloro/ che questo tempo chiameranno antico.” Ecco, qui siamo di fronte ad un contrasto nell’intimo del poeta alla ricerca di gloria, di fama futura e soprattutto, forse, di verità, ma preoccupato (o almeno voglioso di dare questa impressione) di spiacere ai potenti della propria epoca. Tra l’altro è un dubbio umanissimo ed accettabile e parimenti accettabili sono il fatto che lo confessi ad un “padre”, un trisavolo e la risposta che quest’ultimo dà a Dante, risposta che va al di là della domanda giungendo a svelare il perché delle modalità del viaggio e del viaggio stesso. Dice Cacciaguida che chi ha la coscienza sporca si risentirà comunque delle parole di Dante ma che è bene che egli dica tutta la verità e lasci “pur grattar dov’è la rogna”; poiché all’inizio la parola del poeta sarà fastidiosa, ma quando sarà “digerita” produrrà un nutrimento vitale (quindi il viaggio dantesco e la poesia che ne segue hanno un intento nutriente per l’anima, educativo, morale, quasi pedagogico); inoltre la poesia di Dante colpirà di più i potenti e questo gli rende onore ed infine è questo il motivo per cui gli sono state mostrate lungo il suo percorso le anime “che son di fama note”, le anime di personaggi conosciuti: perché chi ascolta non è colpito da esempi di persone incognite e sconosciute né da argomenti che non siano evidenti. Qui c’è tutta la maestria, oltre che poetica, morale ed educativa di Dante. Il viaggio di Dante si presenta così (anziché artificioso e appesantito da oscurità) diretto e chiaro, senza vacuità retoriche, splendente della luce del Paradiso. Torniamo un attimo su un punto messo da parte ad aspettare: dove non giungono le parole subentra con efficacia il gesto, il movimento del corpo. Beatrice stessa, sin dalla sua apparizione riesce a trasmettere di più con gli occhi che con le parole. Due esempi fulgidi del Paradiso sono i vv. 64-72 nel primo Canto e il v. 22 del secondo Canto: “Beatrice in suso, e io in lei guardava”. Ma dove il movimento del corpo supplisce interamente alla vacanza di parole è nel canto XXXIII, l’ultimo, dove grazie ad accenni, sorrisi e gesti magnifici, Dante riesce a vedere Dio. Il Movimento parte da Dio e ritorna in Dio, poiché solo il movimento ne ha reso possibile la visione. Il viaggio di Dante è concluso. Continua, però, in ognuno di noi, anche al di fuori di un progetto di salvezza o del cristianesimo in generale. Lo ripeto: il viaggio dantesco esplica e svela un “destino” metafisico e, proprio perciò, esistenziale. La teologia dantesca è la spiegazione e comprensione del movimento e di ciò che lo causa; in questa prospettiva il viaggio dantesco viene a configurarsi come la più alta esperienza poetica non solo civile e religiosa ma anche e forse soprattutto metafisica. Una metafisica che ipotizza l’identità tra Essere e Amore, un’esperienza poetica metafisica che permette di concludere che il viaggio dantesco è quanto di più cosmicamente universale sia mai stato pensato a proposito di quello che adesso appare come ciò che orienta causalmente e teleologicamente l’umano viaggio dell’esistenza: l’Amore.

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