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 Albertine scomparsa
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Cateno
2° Livello

Città: Regalbuto


169 Messaggi

Inserito il - 04/10/2008 : 13:36:54  Mostra Profilo Invia a Cateno un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Sono giunto circa a metà, ma la tentazione di scrivervi è troppo forte: sto leggendo il sesto e penultimo romanzo della Recherche; dopo La prigioniera ci troviamo di fronte a La fuggitiva (titolo che preferisco all’altro: Albertine scomparsa. Citerò da: Marcel Proust, Albertine scomparsa, in Alla ricerca del tempo perduto, vol. IV, Mondadori, Milano 1993). Questo sesto romanzo comincia (lasciando da parte i problemi filologici) con la stessa frase con cui s’era concluso il romanzo precedente: «Mademoiselle Albertine se n’è andata!». Ciò che per qualunque altro scrittore sarebbe stata solo una vicenda smielata e patetica fino al disgusto, ossia l’abbandono da parte dell’amata e la sua di poco successiva e tragica morte, in Proust miracolosamente acquista il potere di svelare il tempo, i meccanismi della memoria (e quindi dell’oblio). L’abbandono dell’amata si rivela per quello che è; il protagonista-narratore voleva lasciarla, credeva di non amarla punto; messo di fronte al fatto compiuto, però, quello che aveva creduto «non essere niente per me era, molto semplicemente, tutta la mia vita» (pag. 5).
La morte di Albertine, che consacra la sua fuga e la rende eterna, permettendo di considerare quello che sembrava un abbandono temporaneo sub specie aeternitatis, coinvolge parimenti lo spazio; Marcel si rende conto che: «adesso non era più in nessun luogo, avrei potuto percorrere la terra da un polo all’altro senza incontrarla; la realtà, richiusasi sopra di lei, era ridiventata liscia, aveva cancellato anche l’ultima traccia dell’essere ch’era colato a picco» (pag. 113). La realtà si mostra come uno spazio vuoto, in cui non incontriamo più l’oggetto che lo curva, la rende ruvido, lo storpia, lo deforma.
La penetrante sofferenza della morte di Albertine mostra come la mente subisca (perché inestricabilmente connessa con esso) le stesse sorti di una ferita corporale; la calzante, anzi la perfetta similitudine di Proust coglie nel segno: un cambiamento del tempo (atmosferico) gli ricorda cosa faceva Albertine in giornate come quelle; a ciò si aggiunge la gelosia, perché probabilmente ella si sarebbe recata ad amoreggiare con qualche ragazzina; Marcel nota (e qui, infine, v’è la similitudine perfetta) che «visto che non poteva più farlo, non avrei dovuto soffrire di questa idea; ma, come succede ai mutilati, il minimo cambiamento di tempo rinnovava i miei dolori all’arto che non esisteva più» (pag. 90).
Albertine è parte del corpo (perché parte della mente) del narratore; da ciò ne segue il totale sconvolgimento, soprattutto temporale che deriva dalla sua morte.
Dopo aver ricevuto un telegramma in cui lo si metteva al corrente della morte di Albertine, Marcel ne riceve altri due da questa; l’ultimo telegramma di Albertine lo supplicava di poter tornare da lui. Albertine, dicevamo, è parte del corpo (ormai mutilata) di Marcel; dunque è per questo che egli amaramente constata: «Perché la morte di Albertine potesse sopprimere le mie sofferenze, l’urto avrebbe dovuto ucciderla non solo in Touraine [luogo dell’incidente], ma dentro di me. Lì non era mai stata più viva. Per entrare in noi, un essere è costretto a prendere la forma, a piegarsi alla cornice del tempo; non apparendoci che per istanti successivi, non ha potuto lasciarci di sé che un solo aspetto alla volta, consegnarci di sé nulla più d’una singola fotografia. […] La memoria d’un momento non è informata di tutto ciò che è avvenuto in seguito. […] Questo sbriciolamento non si limita a far vivere colei che è morta, la moltiplica. Per consolarmi, avrei dovuto dimenticare non una soltanto, ma innumerevoli Albertine. Quando fossi arrivato a sopportare il dolore d’aver perduto quella, avrei dovuto ricominciare con un’altra, con cento altre.» (pag. 75).
Il coinvolgimento (o lo sconvolgimento) della persona è totale: riguarda il suo corpo, la sua psiche, la sua identità, il suo tempo nelle tre dimensioni del passato, presente e futuro. È annientato il sicuro conforto del ricordo, perché causa di sofferenze; è annientato perché la necessità farà il suo corso e corroderà le immagini e gli affetti: «Non avevo più che una speranza per il futuro, una speranza ben più straziante d’un timore: dimenticare Albertine. Sapevo che un giorno l’avrei dimenticata, avevo pur dimenticato Gilberte, Madame de Guermantes, avevo pur dimenticato la nonna. E per l’oblio così totale, sereno come quello dei cimiteri, con cui ci stacchiamo dalle persone che abbiamo smesso d’amare, il castigo più giusto e più crudele è proprio quello d’intravederlo come inevitabile, questo stesso oblio, nei confronti di quelle che ancora amiamo» (pag. 80).
È annientata l’unità identitaria del soggetto, il susseguirsi delle stagioni, il rapporto che lega la persona all’intero universo: «Legato com’era a tutte le stagioni, perché io perdessi il ricordo di Albertine avrei dovuto dimenticarle tutte, a costo poi di ricominciare a conoscerle […]; avrei dovuto rinunciare a tutto l’universo. Soltanto, mi dicevo, una vera morte di me stesso avrebbe potuto […] consolarmi della sua. Non pensavo che la morte del proprio io non è né impossibile, né straordinaria; essa si consuma a nostra insaputa, se si vuole nostro malgrado, ogni giorno» (pag. 82).
È annientata, infine, la protensione, la distensione della mente nel futuro: «domani, dopodomani, un futuro di vita in comune, forse per sempre, che comincia, il mio cuore gli balza incontro ma quello non c’è più, Albertine è morta» (pag. 77).
Come avete potuto vedere, ho citato molto (forse anche eccessivamente); ma credo ne valga la pena, per delle pagine così dense, così tragiche e profonde. La morte, senza la quale, come sosteneva Schopenhauer, non sarebbe potuto esistere il filosofare, ha svelato non solo la temporalità, ma anche (o forse conseguentemente) il senso delle azioni, dei pensieri, degli affetti di Marcel nei confronti di Albertine. Gli ha fatto comprendere perché assegnava più valore a discutere con Albertine rispetto a persone più intelligenti di lei; perché esiste e su cosa si fonda l’amore; tutto questo senza analisi di psicologia sperimentale o apparati neuroscientifici. La verità di Proust è valida per tutti, in qualche maniera arcana, proprio perché totalmente personale (o soggettiva, pur nell’annientamento dell’unità del soggetto). E mostra che quando il tempo compie la sua opera, lo spazio si richiude su di sé, cancellando ed annientando i grumi che lo deformano, tornando ad essere liscio, piatto, vuoto: in pace.


Finché non lo fai tuo,/ questo "muori e diventa",/ non sei che uno straniero ottenebrato/ sopra la terra scura. (J. W. Goethe)

Rosario
Nuovo Utente

Città: Catania


5 Messaggi

Inserito il - 04/10/2008 : 15:14:31  Mostra Profilo  Visita l'Homepage di Rosario Invia a Rosario un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Naturalmente la "pace" di cui dice Cateno è l'Oblio/morte dell'io del narratore che amava e disperava di Albertine, lo spegnersi della immaginazione maniacale legata a quella figura. Una pace cinerea e da rettili. Sulle prime non può non stupire la fredda, coriacea inscalfibile corazza immaginativa, estranea alla percezione del senso dell'esistenza dell'altro, con cui il Narratore reagisce alla notizia della morte di Albertine. Spesso si ha l'impressione che Albertine in realtà non esista o non sia mai esistita. L'Albertine delle "fanciule in fiore" esiste, quella della "prigioniera" e della "fuggitiva", molto meno (questa è l'impressione a distanza dalla mia prima lettura). Se la passione ruggisce come un leone, l'oblio avvelena stritola e inghiotte tutto come il pitone (nella similitudine che Proust dipinge all'inizio di questo libro della dimenticanza e che poi lo chiude a distanza di 200 pagine nell'episodio del telegramma di Albertine-Gilbert che il narratore riceve a Venezia). Tuttavia e stranamente è proprio questa estinzione della presenza vivente della passione che prepara il suo recupero letterario. E la registrazione letteraria di tutti i moti del cuore non è possibile che a partire da questo Oblio. Il pitone che divora il leone non è soltanto l'Oblio dell'indifferenza del cuore. Esso appartiene anche alla insonne e notturna memoria inscritta nel periodo "alla Proust". In esse il tempo si ritrova. Così quel pitone diventa un Ourobus, l'emblema del serpente che divora se stesso.
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