V I S U A L I Z Z A D I S C U S S I O N E |
Cateno |
Inserito il - 29/11/2004 : 08:32:49 Il prof. Biuso ha citato, tra le “sue” musiche, La Buona Novella di De Andrè. Ora, io ho già un po’ parlato, nel confrontarla con The Passion, di questa meraviglia musicale e poetica; tuttavia, proprio per l’inusitata bellezza di tale opera, mi pare che un approfondimento della questione (e scusate se potrà apparire lunghetto) sia necessario, e per far conoscere la poesia alta prodotta da De Andrè a chi ancora non la conosce, e per discuterne con chi già la conosce così da trarne fuori aspetti che magari l’uno ha notato e l’altro no. Ho adoprato il termine “poesia”. Di solito sono restio nell’utilizzarlo; però in questo caso di poesia si tratta e pure di poesia alta, nei modi che vedremo. L’opera è divisa in due parti (un tempo costituivano il Lato A ed il Lato B): la prima narra la vicenda di Maria e Giuseppe fino all’annunciazione; la seconda della passione, anche se in modo indiretto, cioè, per meglio dire, di ciò che accade intorno alla passione, alle persone che vi assistono, anche a chi non ne è coinvolto materialmente o fisicamente. Già il taglio è insolito: in questa Buona Novella manca proprio chi è l’artefice, il protagonista, colui senza il quale non ci sarebbe stata alcuna Buona Novella: Gesù. Egli non parla mai, il suo nome non è mai pronunciato, la sua persona compare solo indirettamente nella seconda parte, nelle parole degli altri, di chi lo accusa, di chi lo piange, di chi (ma approfondiremo dopo) vuole pensarlo in maniera diversa e più umana (in un senso da vedere, anch’esso, in seguito). Per la Buona Novella in questione ci vuole coraggio. Il cattolico intelligente dovrebbe temere e sperare nella Buona Novella di De Andrè. L’anno scorso ho rincontrato nel mio paese un giovane frate lasalliano di Roma che conobbi anni fa, prima che facesse voto. Ebbene, costui ogni anno organizza un piccolo spettacolo per quel pubblico che sono i miei compaesani. Dunque, lo scorso anno gli chiesi: “Quest’anno che farai?”. Rispose: “La Buona Novella di De Andrè”. “Beh” aggiunsi io, “ci vuole coraggio”. Lo sceneggiato (interpretato da ragazzi, completato con narrazioni, spiegazioni, balletti, e cose del genere) fu un successo. Tutti apprezzarono. Io, però, rimasi con un dubbio: “Chi lo ha capito?”. Non che credessi che solo io possedessi la capacità di poter comprendere, però il rischio che mi è parso correre è stato quello di una cattolicizzazione del tutto. Non da parte di quel frate; figuratevi, anzi, che egli stesso impersonò Tito e ne cantò il testamento (e con mia grande soddisfazione mi disse che pensava a me quando cantava!). Avevo paura che tutti coloro che ascoltavano cattolicizzassero (nel loro “cattolicesimo”) le parole di De Andrè. Ebbene, quel dubbio ce l’ho ancora: “Chi lo ha capito?”. Ad essere sincero mi accade di fronte ad ogni opera d’arte: “Chi la ha capita?”. E mi blocco. Perché anch’io non capisco. Mah! Ammesso che sia possibile separare musica e parole, procediamo all’analisi delle poesie (ripeto apposta il termine). Scusate se procederò brevemente, adesso, ma altrimenti potrei risultare oltremodo prolisso. “Laudate Dominum”: certo. E’ normale. Si deve cominciare così. Non si scappa. Severità, lode e riverenza. E poi? Maria è una bambina. Maria è portata al Tempio. Il seno di Anna e le mura discrete non ne consoleranno più il pianto e non le calmeranno la sete (quei versi sono uno dei vertici poetici). E’ l’infanzia infranta, l’infanzia che non torna a giocare. E poi che dire del casto e pudico “la tua verginità che si tingeva di rosso”? E in Giuseppe che se ne va “stanco d’essere stanco, la bambina per mano, la tristezza di fianco” non sembra rivivere il vecchierel canuto e bianco? Veramente ogni verso è intriso di poesia. Ogni verso qui odora, sa , effonde un senso di giovinezza fresca unita a stanca vecchiaia, collegate e entrambe appesantite dalla tristezza. Vorrei citare ogni verso! Giuseppe parte e sta via per quattro anni. Per il suo ritorno i versi sanno di sabbia e desertici tramonti trapunti di stelle. Quando lo rivede, Maria vola come una rondine tra le braccia di Giuseppe. Sembra quasi di vederla: una fanciulla esile, linda, illibata nell’animo, sottile nelle membra, i suoi passi come battiti d’ali, le sue dita come lacrime, le sue piccole dita da adolescente donna, di donna non ancor né più bambina, e Giuseppe, rotto dal viaggio e dal deserto, Giuseppe che con le mani scopre il ventre di Maria “della forma precisa d’una vita recente”. Ed ella, allora, che narra la sua visione, il suo sogno. Ora, qui vorrei tacere per non sciupare la perfezione di musica e parole. Ma come non dire della velata sensualità dell’Angelo che “alla fine di ogni preghiera contava una vertebra della sua schiena”? Come non far risuonare “l’eco lontana di brevi parole” della “strana preghiera” udita in un luogo o, meglio, in un non-luogo “dove forse era sogno ma sonno non era”, quelle parole “svanite in un sogno ma impresse nel ventre”? Maria è incinta. E qui suona il più bel “Ave Maria” ch’io abbia mai udito. E’ un inno alla donna, anzi alla Madre, a tutte le madri, a tutte le donne “femmine un giorno e poi madri per sempre”. Da notare la scelta del termine “femmine”, quasi a voler sottolineare l’aspetto sessuale di una donna ancora non entrata nella sacralità della condizione materna. Così si chiude la prima parte. La seconda è molto diversa. All’intimità di Maria e Giuseppe si sostituisce il dolore. E’ il dolore che domina tutta la seconda parte. Un dolore sempre intimo (poiché è nell’essenza del dolore essere qualcosa di intimo), ma che si manifesta pubblicamente ora nei padri dei bimbi trucidati da Erode, ora nelle tre madri dei crocifissi (noto marginalmente che Maria piange il “suo” Gesù, “piango di lui ciò che mi è tolto, le braccia magre, la fronte, il volto”), ora nelle acute sofferenze di Tito (acute in senso ambivalente: da un lato perché lo spingono alla riflessione, dall’altro perché insopportabili). La seconda parte comincia con il battere d’un martello. Sono i colpi di chi costruisce la croce. I colpi fanno paura. Ecco, la seconda parte è all’insegna del dolore e della paura. La soluzione qual è? Cioè, cosa si può fare affinché non prevalgano dolore e paura? La soluzione la dà lo stesso De Andrè nelle ultime parole di Tito, il quale a sua volta riconferma l’insegnamento di Gesù: “nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore”. Può apparire banale, ma ecco: l’amore. Però De Andrè non poteva concludere così. Era troppo facile e illusorio: “l’amore, va bene. Ma che vuol dire?”. Ed ecco allora l’ultimo brano che riprende l’introduzione e rende compatta ancor più (semmai ce n’era di bisogno) l’intera opera: Laudate Hominem. Lodate l’uomo. Non voglio pensarti figlio di dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio. Gesù non volle male, finché restò uomo. Verrebbe da dire: diamo all’uomo quel ch’è dell’uomo e lasciamo a dio quel ch’è di dio. Ci vuole coraggio per la Buona Novella di De Andrè. Ci vuole coraggio a farla propria, ad ascoltarla (non a sentirla!) e a metterla in pratica. Mi sa che, dopo Kierkegaard e Nietzsche, l’ultimo che abbia capito Gesù sia stato veramente il nostro buon De Andrè. E quest’ultima frase forse non è solo una provocazione.
Un buon aforisma è come l'amore: breve, lascia il segno e quasi sempre è falso. |
2 U L T I M E R I S P O S T E (in alto le più recenti) |
alice |
Inserito il - 09/12/2004 : 15:22:26 La chiesa non ha mai voluto afferrare il senso della buona novella di De Andrè: l' ha solo inglobata facendo leva sul tema sacro trattato. In realtà come sappiamo De Andrè si rifà ai vangeli cosidetti apocrifi, non riconosciuti dalla chiesa perchè danno l' immagine di un Gesù poco Dio e troppo uomo. Ed è di un uomo e delle vicende intorno a lui che De Andrè parla. Egli stesso, dopo l' uscita dell' album si sorprese di essere stato invitato a Radio Vaticana. E hai ragione tu, Cateno:in pochi hanno capito il vero senso della Buona novella.
L' essenza della Bruttura si trova nella faccia della gente. |
utente non registrato |
Inserito il - 30/11/2004 : 18:21:37 E bravo il mio Tonio, nn smetterò mai di vederti come la mia anima in un altro corpo...
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