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Inserito il - 06/11/2004 : 12:34:32 Al Piccolo Teatro Strehler (Milano) è in scena la versione teatrale delle Memorie di Adriano, il romanzo che Marguerite Yourcenar pubblicò nel 1951 (ed. italiana Einaudi, pagine 330). Nella regia di Maurizio Scaparro, il monologo di Adriano con se stesso transita con grande naturalezza dalle pagine della Yourcenar alla scena teatrale. Uno spettacolo non lungo che concentra in sé la serenità, la melanconia e soprattutto la forza che promanano dal libro. Giorgio Albertazzi dà la misura, i movimenti e gli accenti giusti a questo personaggio limpido ed enigmatico.
Adriano è il soldato, il filosofo, l’amante, l’imperatore. È un romano per il quale la vera patria sono la Grecia e i libri, che parla alla sua animula vagula, blandula come se si rivolgesse al dio, all’universo, a se stesso. Lo circondano i personaggi della memoria (Plotina, Traiano, Sabina e soprattutto l’amato Antinoo). Dando voce ad Adriano, Yourcenar ha colto, fissato, restituito l’epoca in cui –come scrisse Flaubert- tra gli dèi che non c’erano più e Cristo che non c’era ancora, «tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo» (ricordo che Adriano visse dal 76 al 138 e divenne imperatore nel 117).
Adriano vuole capire l’esistenza e le cose e sa di disporre di tre mezzi soltanto: «lo studio di se stessi (…), l’osservazione degli uomini (…) e i libri» (pagg. 21-22 della trad. italiana). La carriera politica, le campagne militari, le iniziazioni religiose, le passioni, le opere tratte dalla pietra o incise con lo stilo, costituiscono tutte degli strumenti per il raggiungimento di una gioia possibile, poiché «qualsiasi felicità è un capolavoro» (p. 155). Il suo sguardo sugli uomini è disincantato senza essere arido, colmo anzi di una pietà libera da ogni sentimentalismo. Ha vissuto con appassionato trasporto «le gioie dolorose dell’amore» (p. 205) fino a disperarsi per la morte di Antinoo ed elevare a lui un vero e proprio culto. Ha nutrito verso la molteplicità delle fedi e delle idee quella tolleranza feconda di chi sa che «vi è più di una saggezza, e sono tutte necessarie al mondo» (p. 253). Ha amato la Grecia perché da lì proviene «tutto quel che c’è in noi di armonico, cristallino e umano» (p. 210) e ha saputo riconoscere in Roma soprattutto la perennità dell’ordine politico.
Compiute le opere, raccolti i pensieri, accettato il dolore, ha cercato «di entrare nella morte a occhi aperti» (p. 276). Adriano non nasconde a se stesso nessuna delle proprie viltà, debolezze, limiti; la radicalità dello sguardo e dell’introspezione fa di questo testo un libro soprattutto nostro, di una interiorità antica e moderna insieme. Di quale epoca sono queste parole: «Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo» (p. 127); «Ma non v’è carezza che giunga fino all’anima» (p. 184)? Di quel tempo lontano, di oggi, di sempre. Consiglio quindi il libro a chi ancora non lo abbia letto e lo spettacolo a chi si trova a Milano.
agb La grande fortuna di Nietzsche è di essere finito come è finito. Nell'euforia! (Cioran)
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